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Fuori dalla partita

Con "episodi fuori dalla partita" intendiamo qui le manifestazioni razziste svincolate dalla logica partigiana del gioco, sia che si sviluppino dentro allo stadio che al di fuori di esso. Si tratta di episodi che non possono essere messi sullo stesso piano di quelli che si verificano dentro il rituale della partita perché le dinamiche da cui risultato, e in certi casi anche i contesti in cui hanno luogo, sono molto differenti tra loro
Foto di violenza ultras fuori dallo stadio

VIOLENZA RAZZISTA FUORI DALLO STADIO. Tra gli episodi di razzismo fuori dal rito della partita vanno anzitutto isolati quelli di violenza fisica (anche gravissima) contro persone di colore, compiuti da gruppi ultras fuori dallo stadio e fuori da qualunque contesto agonistico sportivo. Si tratta di diversi episodi, a opera di tifosi criminali di Lazio, Padova, Roma e Varese fra 2001 e 2008.

RAZZISMO PREVENTIVO. Con razzismo cosiddetto “preventivo” si intende l’azione di gruppi ultras, evidentemente razzisti, che tentano di impedire alla propria società di acquistare un calciatore di colore. È chiaro che qui l’aggressività contro la squadra avversaria, che nel “rito” della partita può trascendere in offese razziste, non c’entra niente. Ricordiamo due episodi emblematici - il caso Winter e il caso Thuram - che peraltro rappresentano bene le dinamiche concrete, anche di carattere personale, e non sempre facili da prevedere che vengono a crearsi tra i soggetti che interagiscono, e cioè:

  • ultras razzisti (più o meno razzisti…), che però devono conciliare il loro razzismo con gli interessi della squadra, e soprattutto non esporsi ad apparire di fronte al resto della tifoseria come danneggiatori della squadra;
  • giocatori di colore, che sono naturalmente singoli individui che possono ben avere paura, anche fisica, di fronte a contestazioni razziste loro rivolte, e che nello stesso tempo sono persone di posizione socio-economica, visibilità mediatica, e spesso anche livello culturale, molto più alti rispetto agli ultras che pretendono di giudicarli inferiori per ragioni razziali ; e che quindi hanno – a differenza di quanto normalmente accade alle vittime di discriminazione razziale – un proprio potere contrattuale e mediatico da contrapporre alla discriminazione;
  • dirigenti delle società di calcio, che si trovano a essere condizionati e perfino impossibilitati a fare le scelte che vorrebbero da ultras a cui peraltro sono legati da interessi reciproci;
  • autorità sportive o istituzionali che, di fronte a questi scenari concreti, possono assumere posizioni antirazziste scontate e rituali, che lasciano le cose come stanno, oppure no.

AGGRESSIONI CONTRO GIOCATORI DELLA PROPRIA SQUADRA. Altra casistica che non ha nulla a che fare con la “ritualità” della partita è quella delle aggressioni e degli insulti razzisti portati da tifosi, fuori dalla partita, contro giocatori della propria squadra. Si tratta di tre episodi di insulti e aggressione fisica contro giocatori neri o magrebini di Piacenza, Roma e Varese da parte di tifosi delle rispettive squadre.

Una variante è rappresentata dall’aggressione razzista contro propri giocatori dentro alla partita. Si tratta di tre episodi di cui si rendono responsabili tifosi del Treviso e del Verona. Anche in casi di questo tipo la “ritualità” aggressiva della partita non può assolutamente essere invocata come spiegazione, anzi si tratta di gesti antitetici alla logica della partigianeria estrema che può arrivare perfino all’offesa razzista, ma come mezzo per “combattere” la squadra avversaria in campo. Significativo di quest'ultimo tipo di aggressione razzista è il caso Omolade, anche per mettere in evidenza da un lato i limiti burocratici della giustizia sportiva in tema di razzismo, e dall’altro lato una reazione antirazzista “creativa” e coraggiosa inventata dai giocatori in contrapposizione ai propri tifosi ultras.


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