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Razzismo e violenza nel calcio italiano.
Società, politica e media

Una sintesi dei passaggi chiave della mia tesi di laurea magistrale
Daniele De Santis e Gennaro De Tommaso, i due sciagurati protagonisti della finale di Coppa Italia 2014

Come si devono interpretare le diverse manifestazioni di razzismo che da anni si verificano nel calcio italiano? E ancora: in Italia le politiche sportive e governative sono efficaci a costrastare il razzismo e la violenza nel calcio? E qual è il ruolo della stampa?

Queste le principali domande a cui ho cercato di rispondere nella mia tesi di laurea magistrale Razzismo e violenza nel calcio italiano. Società, politica e media. La ricerca si è sviluppata su un arco di tempo abbastanza lungo e si è allargata via via a diversi tipi di dati e tradizioni di studio, tutti utili, anzi necessari, per cercare di capire il fenomeno nelle sue molte facce.

Il primo tema a cui mi sono dedicato è quello del razzismo nel calcio italiano, che ho indagato a partire dalla raccolta degli episodi razzisti verificatisi dal 2000 al 2014, in parte desunta dal libro Che razza di tifo di Mauro Valeri, in parte dalle sentenze del giudice sportivo e dagli archivi on line di diversi quotidiani. Da questa indagine è emerso che il razzismo nel calcio italiano si manifesta in varie forme. La più frequente è l’aggressione contro giocatori di colore della squadra avversaria, lanciata durante la partita soprattutto dalle curve da gruppi di tifosi ultrà, in forma scritta (striscioni) e urlata (cori). Meno frequenti sono le manifestazioni di ostilità espresse, sempre durante la partita, da tifosi contro giocatori di colore della propria squadra. Collegati a quest’ultimo atteggiamento sono i casi di cosiddetto “razzismo preventivo”, quando una tifoseria protesta contro la società per tentare di impedire l’acquisto di un giocatore di colore. A parte stanno gli episodi criminali di violenza fisica (pestaggi, accoltellamenti) contro extracomunitari compiuti da gruppi ultrà fuori dallo stadio, e che si distinguono per la loro connotazione xenofoba-razzista da altre forme di violenza ultrà quali l’aggressione a tifosi delle squadre avversarie o contro le forze di polizia.

Qualcuno di questi fenomeni, molto diversi gli uni dagli altri ma tenuti insieme da un filo comune, si può spiegare nell’ambito del “rituale” della partita? È quello che tendono a sostenere diversi studi sociologici degli anni Novanta, sia francesi (Bromberger) sia italiani (Dal Lago, Moscati, De Biasi), secondo i quali gli insulti razzisti vanno contestualizzati entro la dinamica della battaglia rituale, quindi non vanno presi alla lettera: sono una delle “armi” con cui i gruppi organizzati dei tifosi ultrà sostengono la battaglia combattuta dagli 11 in campo. O invece le manifestazioni di razzismo allo stadio sono da interpretare come sintomi di disagio sociale di fronte all’immigrazione? Anche questa è un’opinione largamente diffusa, che trova le sue radici negli studi sociologici degli anni Ottanta sul comportamento violento e razzista e sulla caratterizzazione tipicamente proletaria degli hooligans inglesi (Ingham, Giulianotti, Hepworth, Dunning, Murphy, Williams).

Studiando 15 anni di razzismo negli stadi italiani mi sono convinto che questi due tipi di spiegazione non colgono l’essenza del fenomeno, anche se certamente giocano un loro ruolo. Non si può infatti ignorare che la composita realtà degli episodi di razzismo sopra descritta si accompagna spesso alla esposizione di simboli neofascisti-neonazisti che caratterizzano nettamente alcuni gruppi ultrà di estrema destra, i quali coabitano nelle curve, spesso in posizione egemone, con altri gruppi ultrà più o meno apolitici o anche, più raramente, di sinistra. Né si può ignorare il fatto che gli episodi di razzismo più gravi, e quelli che non si sono verificati durante la partita (e che dunque non possono in alcun modo essere interpretati come “rituali”) sono avvenuti quasi esclusivamente ad opera di tifoserie con forti nuclei di ultrà neofascisti. E significativo è anche che tutti gli altri episodi, non altrettanto gravi e verificatisi durante la partita (come i cori “buuu”), sono avvenuti in proporzione molto maggiore presso le stesse tifoserie marcatamente neofasciste.

Queste conclusioni, scaturite con evidenza da alcune analisi statistiche elaborate sulla gran mole di dati raccolti, hanno poi trovato conferma nella storia dei movimenti eversivi e nella parallela storia del movimento ultrà in Italia dalla fine degli anni Sessanta a oggi, che ho ricostruito grazie a varie fonti: la bibliografia sociologica sugli ultrà (Dal Lago, Moscati, Roversi, Balestri-Podaliri, Mariottini, Ferreri) e quella che esprime il punto di vista ultrà (Patané Garsia); gli studi sull’evoluzione dei movimenti neofascisti (Tassinari, Ferrari); gli archivi online di Repubblica e del Corriere della Sera; alcuni rapporti di polizia e il Rapporto 2014 dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive.

Tutte queste fonti diverse concordano nel raccontare in modo inequivocabile il processo di infiltrazione neofascista nelle curve che si è sviluppato intensamente nel corso degli anni Ottanta e Novanta.

Perché gli stadi sono stati scelti come luoghi adatti a far passare un certo messaggio politico e razzista?

La prima ragione è la composizione sociale e culturale delle curve italiane: composizione prevalentemente popolare e poco istruita. Sono proprio questi gli strati sociali più esposti a sviluppare forme di razzismo, essenzialmente come istinto di difesa contro gli immigrati.

Fattori più stringenti di affinità legano poi i neofascisti specificamente agli ultrà: nella cultura ultrà è infatti presente un’inclinazione alla violenza e un culto della forza che sono in sintonia con l’estrema destra. E il ribellismo giovanile insito nella cultura ultrà può poi facilmente essere incanalato contro la “repressione”, quindi contro la polizia e le istituzioni in generale.

La seconda ragione è che nello stadio agisce uno scatenamento controllato delle emozioni collettive: esso è cioè uno dei pochi luoghi all’interno delle società contemporanee in cui si può provare il piacere di parole e di gesti che sono al limite della regola, e a volte la oltrepassano (Elias, Dunning). Si spiega dunque anche perché il razzismo da stadio sia brutalmente esplicito e diretto e tanto diverso dal “nuovo razzismo”, subdolo e dissimulato.

Di fronte a una situazione tanto complessa cosa è stato fatto in Italia, e che cosa invece non è ancora stato fatto e bisognerebbe fare per contrastare il fenomeno?

Quanto alle politiche della giustizia sportiva, un punto critico fondamentale è che le misure previste dalla Uefa, e recepite dalla Figc, sono misure collettive, colpiscono cioè più le società e l’intera comunità dei tifosi che non i singoli responsabili. Di fronte a cori o striscioni o altri atti di razzismo o episodi di violenza scattano infatti multe alle società, interruzione o sospensione della partita, chiusura parziale o totale dello stadio: uno schema che non colpisce i colpevoli e che finisce invece con l’aumentare il potere di ricatto che gli ultrà esercitano sui club.

Quanto alla giustizia ordinaria, il sistema di norme elaborato negli ultimi quindici anni in Italia, in parte sulla scorta di ciò che è stato fatto in Gran Bretagna contro gli hooligans, prevede i Daspo, gli arresti (anche in flagranza differita) per gli atti più gravi, i biglietti nominali, i posti numerati e la tessera del tifoso per controllare e limitare gli accessi allo stadio, e persino un capillare sistema di controllo e di intelligence per smascherare sul nascere gli atti di violenza e di razzismo, con l’Osservatorio per le manifestazioni sportive e le Squadre tifoserie che fanno capo alle varie Digos e a un Ufficio centrale della Polizia di prevenzione e altro ancora. Ma si tratta di norme, che pur ispirandosi al “modello inglese”, difficilmente riproducibile comunque nella diversa realtà italiana, contengono molti nodi che ne ostacolano e limitano l’applicazione: nodi relativi alla scarsa chiarezza degli enunciati, che rende di controversa interpretazione la norma, e nodi relativi alla completezza e razionalizzazione di un sistema in cui per esempio capita spesso che i Daspo vengano disattesi e il controllo all’ingresso degli stadi venga eluso perché chi è stato colpito da un Daspo può sempre entrare con i biglietti gratis che ha ricevuto sottobanco dal proprio club. Tanto è il potere di ricatto dei capi ultrà.

È questa la vera falla del sistema: la profonda corruzione che in Italia attraversa il mondo del calcio e che coinvolge, oltre ai club e ai capi ultrà, legati fra loro da un enorme business spesso oltre i limiti della legalità, soggetti delle istituzioni calcistiche, della politica e finanche della criminalità organizzata (Simone Di Meo e Gianluca Ferrari, Pallone criminale) – se è vero, tanto per fare un esempio, che il gruppo ultrà degli Irriducibili ha avuto un ruolo decisivo nella scalata alla Lazio dei Casalesi nel 2005 – in un complesso e vischioso intreccio di rapporti che ho cercato, sia pur in minima parte, di documentare e chiarire con la mia ricerca. “Un immenso corpo sommerso [che] tutti conoscono e fingono di ignorare per convenienza” – come ha scritto il Fatto quotidiano online in un’inchiesta pubblicata due anni fa dal titolo Ultrà, ricatti e violenze. L’unica fede è il denaro – in cui la criminalità organizzata usa il calcio come strumento per costruirsi un legame duraturo con la popolazione e l’ambiente (Raffaele Cantone). All’interno di un contesto così inquinato e sfuggente, in cui i capi ultrà sono perfettamente consapevoli della propria forza di ricatto, probabilmente neppure gli stadi moderni e polifunzionali, di proprietà dei club – quegli stadi tanto invocati per responsabilizzare le società e migliorare i sistemi di sicurezza, e che infatti nella diversa realtà inglese hanno dato ottimi risultati nella lotta anti-hooligans – potrebbero produrre in Italia, se mai riusciremo a realizzarli, effetti altrettanto positivi.

In questo scenario qual è il ruolo dei media? Un dibattito piuttosto nutrito su questo punto si è avuto negli anni Settanta e Ottanta in Gran Bretagna, dove il trattamento sensazionalistico della violenza hooligan da parte dei tabloid popolari è stato diversamente interpretato. Secondo i sociologi della Scuola di Oxford (Marsh, Rosser, Harré), i tabloid avrebbero addirittura creato i fenomeni stessi, incitando gli hooligans a uscire dalla sfera puramente rituale della propria violenza e a trasformarla in violenza reale; mentre per gli studiosi della Scuola di Leicester (Dunning, Murphy, Williams), che ritenevano la violenza degli hooligans per niente simbolica e quanto mai reale, i tabloid, pur avendo giocato un proprio ruolo, non erano da considerare la causa scatenante del fenomeno.

In assenza di un dibattito altrettanto vivace sull’atteggiamento della stampa italiana verso le azioni degli ultrà, mi è sembrato interessante esaminare il modo in cui i principali quotidiani sportivi e non sportivi hanno trattato l’episodio della finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014, in cui è stato ucciso Ciro Esposito, un tifoso del Napoli. Si tratta infatti di un episodio estremamente significativo perché in esso convergono e hanno trovato conferma molte delle idee qui sviluppate: violenza ultrà, infiltrazione neofascista e camorrista nelle curve, inadeguatezza della giustizia sportiva e debolezza delle istituzioni.

Attraverso lo studio di circa 400 articoli usciti fino a circa due mesi dopo il fatto, è emerso come i quotidiani italiani nel loro insieme, fatta salva una certa polarizzazione politica, abbiano cercato di raccontare e interpretare obiettivamente quanto accaduto attraverso cronache, servizi, interviste, interrogandosi anche con una certa onestà e curiosità intellettuale sulle cause del fenomeno e sui modi per combatterlo. Il contributo della stampa quotidiana italiana, sportiva e non sportiva, appare quindi distante dal sensazionalismo dei tabloid inglesi, ed è anzi per maturità e complessità di analisi paragonabile a quello dei quotidiani inglesi d’élite come il Guardian e il Times.

Quello che scarseggia, semmai, è la disposizione continuativa a un vero e proprio giornalismo d’inchiesta che porti conoscenze davvero approfondite e originali sui mali di un sistema, quello del calcio italiano, che andrebbe profondamente riformato e risanato. Invece, al di là di una estemporanea indignazione, espressa a tratti in toni moralistici e fumosi, una volta abbassati i riflettori sulla finale di Coppa Italia i quotidiani sono tornati alle solite sterili polemiche sul calcio giocato.

Per saperne di più visita il sito e leggi l'abstract della mia tesi di laurea magistrale.


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